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Il colloquio di lavoro (3a puntata) – Lo psicologo

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Vi proponiamo l’ultima delle tre “puntate” di un racconto/rendiconto con le modalità di colloquio di lavoro abbastanza in voga ultimamente. Qui la prima puntata, e qui la seconda.

“Però che bestie, lo psicologo, poi, ha fissato tutto il tempo, e scriveva, scriveva… che buffone!”
“Chi ti ha detto che era uno psicologo? Parli di quello senza occhiali?”
“Sì, quello. Me lo ha detto la signora , quella tizia strana delle chiavi della banca, del resto, c’è sempre uno psicologo durante questi colloqui. Comunque sono ridicoli…”
Maura si accende una sigaretta, sparisce nell’autobus. Tutte sono sedute vicine.
“Però non è giusto. Non mi è sembrato un colloquio”
“Perché c’è chi non parla molto ma non vuol dire che non sia capace…”
“Non è detto che prendano chi ha parlato di più. La pazza delle chiavi ha fatto uno sproloquio, era nel mio gruppo”
“Alla fine è normale. Il gioco era: convinci gli altri a far salire sulla barca quello che vuoi tu. Non era importante portare le cose più intelligenti. Se uno riusciva a convincere il gruppo, che so, a portare il gioco in scatola, mostrava evidentemente una personalità forte, e questo è fondamentale quando si lavora in team”.
“Scusa, c’era scritto “colloquio” nella mail. Credo dovrebbero concederci la dignità di farlo, un colloquio. Lì ognuno parlava da solo, si sbracciava. Non era un team. Nessuno di noi era su una nave. E noi che non abbiamo detto niente, proprio come le scimmie”.
“Mah, che esagerazione, dai! Io ne ho fatti tanti di colloqui così, sono colloqui attitudinali, a me spiace che tu non abbia parlato…”
Scendono dall’autobus, alla fermata della metro. “Ah, tutte in metro, anche…”
Maura non fiata, sta meglio. Poi, di scatto: “Ragazze, io vado nell’altra direzione, in bocca al lupo…”
“Grazie, crepi! Anche a te. È stato un piacere”.
“Ciao”.
Il treno arriva immediatamente. Salgono. Le mangia la galleria.
“Comunque, come va va… Io mi sono fissata con la storia dell’i-phone, e la tizia quando se n’è uscita col cane…”
“Ah ah, è vero…”.

È un racconto ma anche un rendiconto di un particolare genere di “colloquio” di lavoro. Niente è stato inventato, se non i nomi. L’assuefazione può essere un procedimento di sensibilizzazione che riguarda comportamenti, reazioni: semplicemente si compie un gesto senza rendersene conto, si partecipa senza essere presenti con il proprio spirito critico. Immagino che quando un esercizio del genere venga svolto in gruppo l’individuo singolo possa sentirsi indotto alla partecipazione, come convinto dall’impassibilità generale. Ricordo bene che alcuni, una volta saputo, pur sommariamente, in che termini si sarebbe svolto il “colloquio”, dichiararono che sarebbero andati via all’istante. Nessuno si alzò, il colloquio è stato sostenuto da tutti. Chi disse che voleva andare via non solo non lo fece, ma affrontò il “gioco” (così è stato chiamato da una dirigente dell’azienda) in maniera, mi è sembrato, brillante. In seguito a questo colloquio, a persone che posso descrivere come attente, riflessive ed informate ho raccontato immediatamente la mia esperienza dicendomi preoccupata per i risvolti sociologici, se vogliamo, di procedimenti di “selezione” di tal schiatta. Mi hanno raccontato di aver fatto il primo “colloquio” in forma di gioco appena diplomati, per entrare a lavorare in banca. La risposta che ho avuto durante alcuni di questi confronti è stata spesso riferita all’esito: “non mi hanno preso”. Il fine. È possibile che, per vari fortunati motivi, fare l’esperienza di “colloqui” simili per la prima volta a trentun anni mi abbia fatto dimenticare quanto possa essere robusto il concetto di “fine”. Si viene invitati a colloquio dietro superamento di una prova scritta. Poi tutti superano la prova scritta ma non vengono avvisati, e vengono fatti sedere in cerchio, in gruppo; li si mette davanti al fatto compiuto e astratto di dover essere su una nave e di dover imporre agli altri le proprie scelte, fare in modo di convincere gli altri, non importa di cosa, e li si sta a guardare, senza fornire alcuna informazione. Alcuni mi hanno detto che così scelgono chi ha una maggiore “dialettica”. “Colloquio”, “dialettica”, “selezione”, devo usare le virgolette per delicatezza nei confronti di una situazione complessa. La lingua è un aggeggio delicato. Più o meno negli stessi giorni, accettando l’invito di una persona che mi aveva consigliato scherzosamente di rispondere ad un annuncio inviando il mio curriculum per la posizione di “segretaria commerciale, con ottimo italiano parlato e scritto”, venivo contattata e, da minimi riferimenti e un sospetto di fondo, tiravo fuori dai denti alla giovane voce telefonica che stavano cercando una persona che nella zona svolgesse mansioni di promoter, per strada. Ho replicato, piccata: “ma sull’annuncio non c’era scritto: segretaria commerciale?”; mi veniva risposto: “sì, infatti”; “ma, senza ufficio?” “certo che no, è un lavoro di segreteria commerciale”; “scusi se sono insistente, quello che mi descrive è un lavoro di rappresentanza porta a porta, non avrei inviato il mio curriculum se lo avessi saputo”; la signorina al telefono ha cambiato tono, “allora adesso ci siamo capite, arrivederci”, e ha attaccato. Per un giovane che oggi ha venticinque, ventisei anni, ma forse sbaglio, forse anche per una persona poco più adulta, diciamo trentun anni, il “gioco della nave” è un “colloquio”. Ed è giusto non avvisare che la prova viene comunque superata da tutti, non pensare a dire che il “colloquio” si svolgerà in questa forma, che il curriculum si può anche lasciare a casa. Ancora può diventare, se non scontato, indifferente che vi saranno delle persone che indosseranno occhiali scuri con buona pace dell’educazione (da bambina mi hanno insegnato che non si sta con gli occhiali da sole in un contesto formale) e si parleranno nell’orecchio davanti a chi deve affrontare un problema astratto, e neanche per un istante si dubiterà della bontà, o legittimità, del procedimento. Giovani e adulti che, per avere un lavoro di due settimane che impegna, da prospetto inviato, dalle ore 8 alle ore 23,30, dovranno fare esattamente tutto quel che due sconosciuti presentano come un piatto già servito. Mostrando di avere “dialettica”. Per quel che ne so, e devo ammettere che non è molto, la dialettica è parola che dalla filosofia, dove è arte del dialogo su due tesi in contrasto a cercare, in principio, la verità attraverso un percorso, è finita col divenire la capacità di convincere attraverso il discorso. Per la parola colloquio, senza virgolette, si può cercare sul vocabolario, “parlare di due o poche persone tra loro”, ma inteso è, nello specifico, il parlare tra chi domanda e chi cerca lavoro, non tra chi cerca lavoro sotto lo sguardo di chi sta zitto. Così si formano i nuovi lavoratori, in un regime di pensiero che contamina competizione e lavoro di gruppo, e a legittimare la formazione e percezione degli obiettivi – non di chi il lavoro lo offre, ma di chi lo cerca – sta la figura di uno psicologo, inteso come “dottore”, doctor, più dotto. Forse si tratta di più di una mattinata persa.

L'articolo Il colloquio di lavoro (3a puntata) – Lo psicologo sembra essere il primo su Fascio e Martello.


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